Tutto inizia dal grammofono, dal suo cono dorato che
emette quel suono graffiato di un Charleston che sembra suonato ad un miglio di
distanza da casse ed amplificatori che possono arrivare facilmente a 120
decibel. Invece la punta che oscilla sul disco scavato, con mille seghettature,
riempie la sala da ballo, seppur piccola. Il lampadario di cristallo riflette
all’infinito quella calda luce, quasi fosse una sfera da discoteca, e lancia
sul pavimento tante piccole macchie più chiare, non distinte, impalpabili, che
si fermano talvolta sulla spalla lievemente scoperta di una dama in abito
rosso, o sulla giacca nera da sera di gala di un uomo intento al suo
corteggiamento. L’unico termosifone che scalda quella stanza è l’enorme camino
sulla parete, che ,col suo fuoco impetuoso, la riempie di calore, colore e
rumore, talvolta, quando sembra difficile colmare momenti imbarazzanti di
silenzio totale.
Si passa poi all’orologio da taschino, d’argento,
con apertura a scatto, per evitare che si rovini o inavvertitamente si muovano
le lancette sul quadrante; oppure per non effettuare chiamate indesiderate. Alla
berlina, il mezzo di trasporto più veloce per muoversi agilmente in città. Un
taxi coi cavalli. E la posta. Niente può essere associato alla trepidazione di
aspettare una lettera di colei che abbiamo conosciuto al ballo e che ci ha
concesso ben tre danze, dimostrandoci il suo interesse. Continuava a sorridere,
sembrava non essersi divertita mai in quel modo. Quel sorriso che lascia intendere
più di mille parole. E le mani che si sfiorano, gli occhi che si incontrano e
che riempiono il cuore. Inebriarsi nuovamente del suo profumo, spruzzato
direttamente sulla carta, come fosse una fotografia che insistentemente ci
ricorda con chi stiamo chattando. Così, velocemente si premono i tasti
sull’orologio da taschino, e ricomincia l’attesa. Ci sono sessanta giorni in un
minuto, così come sette ore fanno una settimana. E man mano che la prospettiva
dell’incontro si avvicina, l’aspettativa aumenta, e la bramosia di un contatto
visivo dilata l’intervallo di tempo nel quale bisogna solo aspettare.
Infine l’inchino, il baciamano, parlare in modo suadente
e corretto, la galanteria. Il fremito nello sguardo dopo tempo distanti; e rapide
occhiate, frequenti, maliziose, e sorrisi accentuati, ammalianti, eloquenti.
Signori che adagiano il soprabito sulle spalle infreddolite delle signore;
Signore che offrono il loro fazzoletto al signore prediletto, nella speranza
che non dimentichino quell’incontro.
Invertiti i ruoli, ormai. Volgare era chi aggirava
l’etichetta, bifolco è chi cerca di riesumarla. La terra gira troppo in fretta
per soffermarsi alle cose superflue come la gentilezza, o la cavalleria.
Tempi ed epoche diverse, diverse modalità, ma stesse
opportunità. Quando una cena, una festa, un ballo erano occasioni per conoscere
persone, la posta si chiamava “corrispondenza”, ma veniva portata con motorini,
si aspettavano interminabili secondi in una chat-room in attesa fremente di una
risposta dell’interlocutore e si contavano i minuti veloci dentro una carrozza,
godendosi la vista della città, abbellita al pensiero dell’incontro agognato. Cose
simili: ma in ventiquattro ore la possibilità di avere un mese a disposizione.
Il tempo, le usanze, il fascino, l’etichetta,
l’atteggiamento che si perdono una volta di più ogni 31 di dicembre.
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