martedì 17 aprile 2012

Prigioniero del mio tempo


Tutto inizia dal grammofono, dal suo cono dorato che emette quel suono graffiato di un Charleston che sembra suonato ad un miglio di distanza da casse ed amplificatori che possono arrivare facilmente a 120 decibel. Invece la punta che oscilla sul disco scavato, con mille seghettature, riempie la sala da ballo, seppur piccola. Il lampadario di cristallo riflette all’infinito quella calda luce, quasi fosse una sfera da discoteca, e lancia sul pavimento tante piccole macchie più chiare, non distinte, impalpabili, che si fermano talvolta sulla spalla lievemente scoperta di una dama in abito rosso, o sulla giacca nera da sera di gala di un uomo intento al suo corteggiamento. L’unico termosifone che scalda quella stanza è l’enorme camino sulla parete, che ,col suo fuoco impetuoso, la riempie di calore, colore e rumore, talvolta, quando sembra difficile colmare momenti imbarazzanti di silenzio totale.
Si passa poi all’orologio da taschino, d’argento, con apertura a scatto, per evitare che si rovini o inavvertitamente si muovano le lancette sul quadrante; oppure per non effettuare chiamate indesiderate. Alla berlina, il mezzo di trasporto più veloce per muoversi agilmente in città. Un taxi coi cavalli. E la posta. Niente può essere associato alla trepidazione di aspettare una lettera di colei che abbiamo conosciuto al ballo e che ci ha concesso ben tre danze, dimostrandoci il suo interesse. Continuava a sorridere, sembrava non essersi divertita mai in quel modo. Quel sorriso che lascia intendere più di mille parole. E le mani che si sfiorano, gli occhi che si incontrano e che riempiono il cuore. Inebriarsi nuovamente del suo profumo, spruzzato direttamente sulla carta, come fosse una fotografia che insistentemente ci ricorda con chi stiamo chattando. Così, velocemente si premono i tasti sull’orologio da taschino, e ricomincia l’attesa. Ci sono sessanta giorni in un minuto, così come sette ore fanno una settimana. E man mano che la prospettiva dell’incontro si avvicina, l’aspettativa aumenta, e la bramosia di un contatto visivo dilata l’intervallo di tempo nel quale bisogna solo aspettare.
Infine l’inchino, il baciamano, parlare in modo suadente e corretto, la galanteria. Il fremito nello sguardo dopo tempo distanti; e rapide occhiate, frequenti, maliziose, e sorrisi accentuati, ammalianti, eloquenti. Signori che adagiano il soprabito sulle spalle infreddolite delle signore; Signore che offrono il loro fazzoletto al signore prediletto, nella speranza che non dimentichino quell’incontro.
Invertiti i ruoli, ormai. Volgare era chi aggirava l’etichetta, bifolco è chi cerca di riesumarla. La terra gira troppo in fretta per soffermarsi alle cose superflue come la gentilezza, o la cavalleria.
Tempi ed epoche diverse, diverse modalità, ma stesse opportunità. Quando una cena, una festa, un ballo erano occasioni per conoscere persone, la posta si chiamava “corrispondenza”, ma veniva portata con motorini, si aspettavano interminabili secondi in una chat-room in attesa fremente di una risposta dell’interlocutore e si contavano i minuti veloci dentro una carrozza, godendosi la vista della città, abbellita al pensiero dell’incontro agognato. Cose simili: ma in ventiquattro ore la possibilità di avere un mese a disposizione.
Il tempo, le usanze, il fascino, l’etichetta, l’atteggiamento che si perdono una volta di più ogni 31 di dicembre.

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